Cirié è un’ importante cittadina piemontese a pochi chilometri da Torino. Fin dall’inizio deò secolo del 1800 la città dimostrò uno spiccato interesse verso lo sviluppo industriale, che ebbe il suo culmine nel corso del ‘900. Le industrie che componevano questa cittadina erano numerose e racchiudevano i settori più disparati: tintorie, produzione di cuoio, coltellerie, falegnamerie ed industrie metallurgiche.
L’IPCA (acronimo di: Industria Piemontese dei Colori di Anilina) venne fondata nel lontano 1922 dai fratelli Sereno e Alfredo Ghisotti, sopra i resti di quello che rimaneva d’un vecchio complesso industriale ottocentesco che si occupava della produzione di fiammiferi. La fabbrica si trova lontano dal centro urbano di Ciriè, nella piccola frazione di Borche una località in mezzo alla tranquilla e pacifica campagna piemontese, dove un tempo vigeva l’epiteto “verde di riposi ristoratori“.
Questa fabbrica passerà alla storia come “La Fabbrica del Cancro” di Ciriè. Una storia triste. Nel 1922 non esisteva ancora il concetto di sicurezza sul lavoro, così come le norme “ambientali”green” non erano nemmeno lontanamente concepibili. La fabbrica produceva colori con sostanze chimiche altamente nocive come la beta-naftilamina (benzidina) e aniline.
Colori assassini:
“L´ambiente è altamente nocivo, i reparti di lavorazione sono in pessime condizioni e rendono estremamente gravose le condizione stesse del lavoro. I lavoratori vengono trasformati in autentiche maschere irriconoscibili. Sui loro volti si posa una pasta multicolore, vischiosa, con colori nauseabondi e, a lungo andare, la stessa epidermide assume disgustose colorazioni dove si aggiungono irritazioni esterne” (fonte)
Queste furono le dure parole che scrisse nel 1956 la camera del lavoro di Torino in seguito ad un’ inchiesta sulle condizioni di lavoro nella fabbrica. Ma tale inchiesta non portò a nulla, serviranno ulteriori anni e morti per portare a galla quello che gli operai dell’IPCA dovettero subire sulla propria pelle. Analizzando la storia scopriamo che già nei primi anni d’attività ci furono problemi di salute, mali che nella maggior parte dei casi s’evolvevano in un calvario che conduceva in un’ unica direzione: il cancro alla vescica. Gli operai, con tetra ironia chiamava queste persone con un termine piemontese: “pissabrut“, gli urina-rosso.
Nel frattempo gli operai non stavano di certo a guardare, vedevano sempre più colleghi ammalarsi, dopo anni di lavoro in questi ambienti velenosi, nel 1968, due coraggiosi operai si licenziarono ed iniziarono ad indagare per conto proprio, sono Albino Stella e Benito Franza (che scoprirono in seguito d’essere anche loro ammalati), grazie a loro venne alla luce quello che per decenni venne tenuto all’oscuro.
L’indagine:
Erano anni che si parlava delle difficili condizioni di lavoro nell’IPCA, ma ci volle il coraggio e la determinazione di due operai per far venire a galla la verità.
L’indagine richiese diversi anni, l’annotazione dai cimiteri della zona di tutti i compagni morti tra il 1968 ed il 1972. Ne annotarono un numero decisamente inquietante: 134, solo in quei 5 anni! Un numero impressionante, morti che fino a quel momento erano stati uccisi dal lavoro e che attendevano giustizia.
In seguito alla preziosissima testimonianza, si arriverà finalmente ad un processo, che avrà una svolta nel 1977 con una condanna a 6 anni di carcere per omicidio colposo ai titolari e dirigenti dell’azienda. Ulteriori indagini accertarono che le vittime tra gli ex dipendenti sono state ben 168. Una condanna che fu giudicata fin troppo lieve considerato i numeri di morti causati per ignoranza.
La chiusura:
In seguito alla condanna (ed altri problemi amministrativi) l’IPCA chiuse i battenti nell’agosto del 1982, lasciando in eredità solo inquinamento e morte. Per 650 milioni di Lire il sito venne acquistato dal comune di Ciriè, nel novembre 1996 il Comune di Ciriè ottenne dal Ministero dell’Interno un finanziamento di circa 6 miliardi di Lire per l’eliminazione di 5677 fusti (solventi, diluenti, residui di verniciatura, coloranti e reagenti), eliminare 4.660.220 kg di liquami tossici e bonificare 50 serbatoi e 13 vasche di decantazione. La bonifica è terminò con pieno successo il 31 agosto 1998. Oggi la zona è completamente sicura e priva d’agenti chimici pericolosi.
Ad oggi il complesso è completamente abbandonato, pur essendo poco vandalizzato, le strutture soffrono per la mancanza di manutenzione e l’esposizione agli agenti atmosferici. La zona è dichiarata pericolante ed è ufficialmente vietato accedervi. Da anni si discute su una possibile riqualificazione dell’area, ma per il momento quello che rimane, sono le macerie di una storia vergognosa che non deve più ripetersi.
Aggiornamento: quest’articolo l’ho scritto in origine nel 2014, oggi la fabbrica è ancora abbandonata, ma ci sono piani per un suo recuperto, per trasformare questo spazio (forse) in un museo della memoria e dargli anche qualche nuova destinazione d’uso.